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Garlasco, perché Paola Cappa ha detto “abbiamo incastrato Stasi”. La verità sulla frase incriminata

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Garlasco – A quasi 18 anni dall’omicidio di Chiara Poggi, il caso torna a riempire le pagine di cronaca giudiziaria con sviluppi che intrecciano vecchi interrogatori, strategie investigative e chat private rimaste finora fuori dagli atti ufficiali. Al centro dell’attenzione, ancora una volta, le gemelle Cappa, cugine della vittima. In particolare Paola Cappa, oggi food blogger, ma che all’epoca dell’omicidio era una studentessa universitaria coinvolta emotivamente e indirettamente nel dramma che ha scosso la sua famiglia.

Il settimanale Giallo ha pubblicato il 15 maggio alcuni contenuti inediti: si tratta di circa 180 messaggi vocali, non depositati in Procura, non trasmessi in TV e mai ascoltati ufficialmente dagli inquirenti. A raccoglierli, secondo quanto riportato dal Corriere della Sera, un blogger un tempo vicino a Fabrizio Corona. Tra questi messaggi, spicca una frase pronunciata da Paola e che ha fatto subito scalpore: «Mi sa che abbiamo incastrato Stasi».

Un’affermazione che, in apparenza, potrebbe gettare nuove ombre su come si sia giunti alla condanna dell’allora fidanzato della vittima, Alberto Stasi, oggi in regime di semilibertà dopo una condanna definitiva a 16 anni di carcere per omicidio volontario.

Garlasco, La Svolta: cosa successe alla festa prima dell’omicidio, le gemelle Cappa: “Odio gli zii”. Com’è stata la loro vita

La genesi della frase: il contesto dell’interrogatorio

La frase incriminata sembrerebbe non riferirsi a manovre esterne o a un complotto, ma piuttosto a un episodio ben preciso: un momento di pausa durante gli interrogatori a cui furono sottoposti Stasi e Stefania Cappa, la gemella di Paola, qualche giorno dopo il delitto.

In quella occasione, i due furono videoregistrati e intercettati, come da prassi investigativa. Durante quel colloquio informale, si abbracciano e parlano a bassa voce. Stefania chiede ad Alberto alcuni dettagli sulla posizione del corpo di Chiara, sulle sue reazioni, sul momento del ritrovamento. Ma, secondo quanto ipotizzato, quelle domande non erano spontanee: sarebbero state “suggerite” dai carabinieri, nell’ambito di una tecnica investigativa volta a indurre Stasi a contraddirsi rispetto a quanto messo a verbale.

In questo senso, la frase «lo abbiamo incastrato» assumerebbe un significato più tecnico che accusatorio: le due ragazze sarebbero state istruite a innescare una reazione che avrebbe potuto smascherare eventuali menzogne.

Messaggi fuori dal processo

Ciò che rende questa rivelazione ancora più controversa è che i messaggi vocali non fanno parte degli atti ufficiali. Non sono mai stati depositati in Procura, non sono al vaglio degli inquirenti, e non sono mai stati trasmessi da “Le Iene”, che pure ne avrebbero avuto accesso.

Questo solleva interrogativi non solo sul contenuto delle chat, ma anche sull’utilizzo mediatico di elementi non processuali e sull’equilibrio tra informazione e giustizia. In un momento in cui la Procura di Pavia ha riaperto le indagini sul delitto, iscrivendo nuovamente Andrea Sempio nel registro degli indagati, il rilancio mediatico di materiale ambiguo ma fuori dagli atti rischia di alimentare il caos e il sospetto, senza fornire certezze né prove reali.

Un caso sempre più complesso

Nel frattempo, gli inquirenti hanno concentrato gli sforzi sulla riesamina dei reperti con un incidente probatorio genetico su DNA, impronte e oggetti raccolti nel 2007. È stato anche dragato un canale a Tromello, vicino alla casa della nonna delle gemelle Cappa, dove è stato ritrovato un martello, mentre si cercava un attizzatoio, citato da un nuovo supertestimone come possibile arma del delitto.

Quella frase – “Mi sa che lo abbiamo incastrato” – pur suggestiva, va contestualizzata: non è una prova, non è parte dell’indagine e potrebbe riferirsi a una strategia suggerita dagli investigatori più che a un’intenzione dolosa. Resta però il fatto che l’eco mediatica di queste nuove rivelazioni continua a spingere l’opinione pubblica a interrogarsi su una verità giudiziaria che, seppur definitiva, viene oggi messa nuovamente alla prova da elementi rimasti ai margini per quasi due decenni.

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