Il dolore di William Anzaghi è quello di un padre a cui è stato strappato tutto. Non cerca parole di conforto, né giustificazioni. Alla domanda se riuscirà mai a perdonare Patrizia Coluzzi, madre della sua bambina e sua assassina, risponde senza esitazione: «Impossibile. Mi ha tolto tutto il futuro che avrei potuto vivere con Edith». Quel futuro che si è infranto la sera del 7 marzo 2021, quando la donna ha soffocato la figlia di due anni nel letto di casa, a Cisliano, in provincia di Milano.
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Secondo Anzaghi, l’omicidio non è stato il gesto di una persona malata, ma un atto deliberato, studiato per colpirlo nel modo più crudele possibile. «Quando ha capito che non avrei mai più ceduto al suo ricatto, ha fatto l’unica cosa che potesse farmi più male: ha tolto la vita a nostra figlia». Una punizione, una vendetta. Dopo aver ucciso la bambina, Coluzzi lo chiamò in videochiamata, mostrandogli la figlia immobile: «Guarda cosa hai combinato». Poi il messaggio, gelido e agghiacciante: «Chiama la polizia, Edith non c’è più».
Le accuse false e la spirale persecutoria
La storia di William e Patrizia comincia nel 2017. Lui, ex insegnante, aveva aperto un bar a Milano, zona Pagano. Lei, madre di due figli, entra nella sua vita e da quell’unione nasce Edith, nel 2019. Si sposano, ma la relazione si deteriora presto: depressione post-partum, difficoltà economiche, pandemia. Lei diventa ossessiva. Dopo la separazione, Coluzzi inizia una lunga campagna diffamatoria: lo accusa di violenze domestiche, mostra lividi, coinvolge medici e associazioni. Ma le indagini smentiscono tutto: William è vittima, non carnefice. Le denunce vengono archiviate.
Nonostante questo, la donna prosegue nel suo intento persecutorio. Gli mette un localizzatore nell’auto, lo pedina, si apposta fuori dal bar camuffata. Gli scrive messaggi pieni di odio. «Era fuori controllo – racconta Anzaghi – ma nessuno mi ha protetto».
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I post-it della follia
Sul letto dove Edith è stata uccisa, i carabinieri trovano dei biglietti. Uno per la figlia: «Scusa piccola, ma non potevo permettere che restassi nelle sue mani da sola». Uno per William: «Affonda la lama, ormai non ci farai più del male». Parole che non lasciano spazio a interpretazioni: la consapevolezza del gesto è evidente. Nessun raptus, ma una scelta ragionata. Per questo la Corte d’assise di Pavia ha condannato Coluzzi a 12 anni di reclusione e 5 anni di ricovero in una struttura psichiatrica. La sentenza è stata confermata in appello e, nell’aprile 2025, è divenuta definitiva con il rigetto del ricorso in Cassazione.
Il processo e il silenzio dell’imputata
Durante il processo, Coluzzi non ha mai parlato. Non ha risposto alle domande, non ha ascoltato il racconto di William. La difesa ha tentato la carta dell’infermità mentale, ma le perizie si sono rivelate fragili. Una relazione, redatta dal consulente del gip, conteneva un errore clamoroso: era stata effettuata su un altro soggetto. A sollevare la questione fu l’avvocato Michele Cinquepalmi, con il supporto del collega Enrico Loasses.
Nonostante la gravità del delitto, pochi mesi dopo l’arresto, Coluzzi ottenne un permesso per recarsi sulla tomba della figlia. Per “motivi terapeutici”. Un fatto che Anzaghi non ha mai compreso. «Io ho scelto di non partecipare alle udienze. Non volevo sentire i dettagli di ciò che ha fatto. L’ultima volta che ho visto Edith era stata allo zoo. Era felice. Non voleva lasciare la vasca delle foche. Quella è l’ultima volta che le ho stretto la mano».
Un padre, una ferita che non si chiude
Oggi, William Anzaghi vive con un vuoto che nessuna sentenza potrà mai colmare. Vive con il ricordo di Edith e la consapevolezza di non aver potuto proteggerla. «Lei non meritava tutto questo. Era la luce della mia vita. Ogni giorno, da quel 7 marzo, è una condanna. E per me non esiste perdono».