Mi chiamo Jyoti Singh. Anche se molti di voi mi conoscono come Nirbhaya, “la senza paura”. Avevo 23 anni. Studiavo per diventare fisioterapista, volevo aprire un centro medico nei villaggi, per aiutare chi non ha accesso alle cure. Non ero speciale, ero una ragazza come tante: lavoravo sodo, amavo i miei genitori, mi emozionavo per le piccole cose. Ma avevo sogni. E la forza di inseguirli.
Il 16 dicembre 2012 doveva essere una serata semplice. Sono andata al cinema con un amico. Abbiamo visto Life of Pi, un film pieno di immagini potenti, animali, mare, sopravvivenza. Chi avrebbe mai detto che, poche ore dopo, io stessa avrei lottato per la vita?
Era poco dopo le 8 di sera. Volevamo tornare a casa, ma non trovavamo facilmente un mezzo. Ci siamo avvicinati a un autobus privato. Sembrava una linea scolastica. Dentro c’erano già alcuni uomini. Ci dissero che stavano andando verso la nostra zona. Salimmo. Una trappola.
Non appena il bus si è messo in moto, si è trasformato in una prigione ambulante. Le porte si sono chiuse. Nessuna uscita. Gli uomini hanno iniziato a insultarci, poi a colpire il mio amico con una barra di metallo. Hanno continuato finché non l’hanno lasciato sanguinante a terra. Poi sono venuti verso di me.Sei uomini. Uno dopo l’altro.
Mi hanno trascinata in fondo all’autobus, mi hanno strappato i vestiti. Mi hanno violentata brutalmente. Mi hanno picchiata, derisa, umiliata. Poi hanno usato quella stessa barra di metallo per devastare il mio corpo, ferendomi internamente in modo irreparabile. Il dolore era accecante, la vergogna bruciante, ma la paura più grande era quella di non sopravvivere. Mi hanno gettata fuori dal bus in corsa, quasi nuda, in una fredda notte di dicembre sulla strada. Come immondizia. Come se fossi un oggetto, un rifiuto. E poi se ne sono andati.
Qualcuno ci ha trovati. Io e il mio amico siamo stati portati in ospedale. In quel momento ero ancora viva. Ricordo il volto dei medici. Ricordo i miei genitori disperati. I medici dissero che le mie ferite erano così gravi che non avevano mai visto nulla del genere. Avevo perso la maggior parte dell’intestino. Mi hanno operata più volte. Avevo tubi ovunque. Ma ero ancora cosciente. E piena di dignità. Scrivevo biglietti, perché non potevo parlare:
“Mamma, non piangere.”
“Non voglio morire.”
“Voglio giustizia.”
Mi hanno trasferita a Singapore. Un ultimo tentativo. Ma il mio corpo, martoriato e mutilato, non ha retto. Il 29 dicembre 2012 ho chiuso gli occhi. Per sempre. Ma non sono morta in silenzio.
Ragazzina molestata nel bus durante la gita scolastica: Il Professore chiama la Polizia
Dopo di me, un Paese si è svegliato
La mia storia ha fatto il giro del mondo. L’India, la mia amata terra, è scesa in strada. Migliaia di giovani, donne, uomini, anziani, studenti, professionisti: hanno gridato il mio nome. Hanno detto basta. Basta all’indifferenza. Basta all’impunità. Basta all’idea che una donna possa essere violata e dimenticata. Mi hanno chiamata Nirbhaya. Per proteggere la mia identità. Ma anche perché non avevo più paura. Perché la mia morte doveva servire a qualcosa. E lo ha fatto. Sono cambiate leggi. Sono stati arrestati i miei aggressori. Quattro di loro sono stati giustiziati nel marzo 2020. Il quinto si è suicidato. Il sesto era minorenne, ed è stato rilasciato dopo tre anni.
Se ascolti ancora la mia voce…
Sappi che io non sono solo una vittima. Sono tua sorella. Tua figlia. La tua amica. Sono la voce di ogni donna che ha paura di camminare da sola. Di ogni ragazza che si chiede se quel vestito sia “troppo corto”. Di ogni madre che teme per sua figlia. Io sono il cambiamento che voi, insieme, potete portare.
La seguente ricostruzione contiene descrizioni realistiche di violenza sessuale e fisica, basata su fatti reali, narrata in forma di monologo immaginario per dare voce alla vittima del Caso Nirbhaya (India, 2012). Il contenuto può risultare emotivamente intenso. La finalità è puramente divulgativa, per onorare la memoria della vittima e sensibilizzare sul tema della violenza contro le donne.