Per la nostra rubrica Cold Case, la storia di Milena Quaglini. A vederla, Milena Quaglini sembrava una donna come tante. Mamma premurosa, occhi chiari e un sorriso gentile, sempre con i figli per mano o intenta a riempire le borse della spesa. Nessuno, incrociandola per strada, avrebbe immaginato che dietro quel volto si nascondesse una delle pochissime serial killer donne della cronaca nera italiana. Eppure, dietro la maschera della normalità si celava una storia feroce, fatta di traumi familiari, abusi, fughe mancate e risposte estreme. Un’esistenza al confine tra la sopravvivenza e la distruzione.
Infanzia nel silenzio della violenza
Nata nel 1957 a Mezzanino, in provincia di Pavia, Milena cresce in un ambiente famigliare segnato da un padre violento e da una madre sottomessa. Le urla e le botte sono la normalità, e Milena assimila presto una visione distorta dell’amore, dove sopraffazione e paura diventano le uniche forme possibili di legame. Nonostante le difficoltà, riesce a diplomarsi in ragioneria e trova un lavoro come contabile. Si sposa con Enrico, un uomo più grande, e per qualche anno sembra aver trovato stabilità. Ma la serenità si spezza ancora: Enrico muore dopo una lunga malattia, e Milena resta sola, con un figlio da crescere.
Mario Fogli: l’inizio della fine
La seconda chance sembra arrivare con Mario Fogli, uomo separato, padre anche lui. Ma il sogno si trasforma presto in incubo. Mario è disoccupato, instabile e profondamente violento: picchia Milena, umilia il figlio costringendolo a dormire in garage, distrugge ogni tentativo di normalità. Milena comincia a bere, a sopportare in silenzio. Ma alla fine trova il coraggio di andarsene.
Ricomincia da zero. Trova lavoro in una palestra e conosce Giusto Dalla Pozza, un anziano che le offre aiuto economico in cambio di compagnia. All’inizio sembra comprensivo, poi tenta di violentare Milena. Lei reagisce con violenza: lo colpisce con una lampada e fugge. La sua versione convince gli investigatori, che archiviano il caso come rapina finita male.
L’omicidio di Mario: la rabbia esplode
Dopo l’aggressione subita, inspiegabilmente Milena torna da Mario. E Mario ricomincia a picchiarla. Ma stavolta qualcosa si rompe per sempre. Una notte, dopo l’ennesima umiliazione, Milena lo lega con il cordino di una tapparella e lo strangola nel sonno. Poi chiama la Polizia. Confessa tutto. Il tribunale riconosce una parziale infermità mentale: Milena viene condannata, ma con una pena ridotta. Dopo un periodo in carcere, ottiene la detenzione domiciliare. Ma è una libertà amara: nessuno vuole accoglierla, nemmeno la madre. È sola, emarginata, invisibile.
Il terzo omicidio e il ritorno in carcere
In un estremo tentativo di ricominciare, risponde a un annuncio per una convivenza. Conosce Angelo Porrello, un uomo con precedenti per abusi su minori. Anche da lui subisce violenza. Ancora una volta, Milena uccide: lo addormenta con un sonnifero, poi lo annega nella vasca da bagno. Nasconde il cadavere in una concimaia e si fa arrestare volontariamente per violazione degli arresti domiciliari, in modo da trovarsi già in prigione al momento della scoperta del corpo. Viene scoperta grazie ad alcune lettere compromettenti. Confessa anche questo delitto.
L’ultimo silenzio
Nel carcere di Vigevano, Milena sembra trovare una nuova dimensione: partecipa a laboratori, dipinge, mantiene un comportamento corretto. Ma è solo una quiete apparente. Nel 2001, si toglie la vita nella sua cella. Si impicca con un lenzuolo. L’ultimo messaggio è una lettera ai figli:
«Non ce la faccio più. Perdonatemi. La mamma.»
Vittima o carnefice?
Milena Quaglini resta una figura ambigua e divisiva. Le sue azioni sono indifendibili, eppure affondano le radici in una storia di abusi, paura e abbandono. È stata carnefice e vittima, nello stesso tempo. Ha cercato amore e ha trovato violenza. Ha chiesto protezione e ha ricevuto rifiuto. È difficile archiviarla come semplice “serial killer”. La sua storia impone una riflessione più profonda su cosa può trasformare una donna comune in un’assassina. E su come una società assente possa alimentare, senza rendersene conto, il percorso verso la tragedia.
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