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Stefano Argentino, la mamma: Gli hanno fatto violenza psicologica, ecco cosa aveva in cella

Stefano Argentino, la mamma: Gli hanno fatto violenza psicologica, ecco cosa aveva in cella

stefano argentino il killer di sara campanella stefano argentino il killer di sara campanella

“In carcere ci si va per scontare una pena, non per morire.” Con queste parole, cariche di rabbia e dolore, Daniela Santoro commenta la tragedia che l’ha colpita il 6 agosto scorso: suo figlio, Stefano Argentino, reo confesso dell’omicidio di Sara Campanella, si è tolto la vita nel carcere di Messina. Per la sua morte sono ora indagate sette persone, tra cui la direttrice della casa circondariale. Santoro accusa apertamente lo Stato italiano di aver fallito nel compito di proteggere un detenuto già noto per il suo fragile equilibrio psicologico.

In un’intervista esclusiva a TgCom, la donna ha ricordato come il figlio avesse sempre manifestato l’idea del suicidio e come lei avesse cercato, finché le era stato possibile, di dissuaderlo. Ha raccontato che, durante la detenzione, Argentino aveva intrapreso più volte lunghi digiuni: cinque giorni senza cibo, poi un’interruzione, seguita da un nuovo periodo di astinenza. Ma soprattutto, aveva trascorso ben diciassette giorni senza bere acqua, episodio che lo aveva portato al ricovero nell’infermeria del carcere per grave disidratazione.

Le accuse della madre

Santoro denuncia inoltre quello che definisce “violenze psicologiche” subite dal figlio. Racconta che nella sua cella era presente una televisione che trasmetteva servizi sul delitto da lui commesso, un’esposizione pubblica che, a suo dire, lo faceva sentire umiliato davanti agli altri detenuti. “Sentire queste cose davanti agli altri è stato pesante, molto pesante,” ha spiegato.

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Un altro punto che la madre non accetta è la decisione del gip di non concedere una perizia psichiatrica a Stefano. “Non costava niente,” ha sottolineato, convinta che un medico avrebbe potuto valutare le reali condizioni psichiche del figlio e stabilire se fosse necessario un percorso di cura o di sorveglianza speciale. Per lei, la mancata attenzione a questi segnali è stata fatale.

Oggi, mentre le indagini cercano di chiarire se vi siano state omissioni nella sorveglianza o carenze nell’assistenza, la vicenda riaccende il dibattito sulla gestione dei detenuti con fragilità psichiche e sulla capacità del sistema penitenziario italiano di garantire non solo la sicurezza, ma anche la dignità e la vita di chi è affidato alla sua custodia.

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