La tragica vicenda di suor Maria Laura Mainetti, oggi beata, continua a scuotere le coscienze anche a venticinque anni di distanza. Era la sera del 6 giugno 2000 quando la religiosa venne brutalmente uccisa a Chiavenna, piccolo centro della provincia di Sondrio, in un delitto che lasciò attonita non solo la comunità locale ma l’intera opinione pubblica italiana. A colpirne l’immaginario fu non solo la ferocia del gesto, ma anche il contesto: tre adolescenti, una trappola orchestrata con fredda lucidità, un presunto rituale satanico, e una vittima la cui unica colpa fu la disponibilità all’ascolto e all’accoglienza.
Una vocazione coltivata nel servizio
Nata come Teresina Elsa Mainetti a Colico nel 1939, Maria Laura era la decima figlia di una famiglia umile, rimasta orfana della madre a pochi giorni dalla nascita. La sua vita fu fin da subito intrecciata al dolore, ma anche alla cura degli altri: cresciuta in parte da una suora, iniziò presto un percorso spirituale che la condusse nella congregazione delle Figlie della Croce. Divenuta insegnante, portò avanti il suo impegno educativo in molte scuole elementari in varie città italiane prima di stabilirsi definitivamente a Chiavenna nel 1984, dove nel 1987 divenne responsabile della sua comunità religiosa.
Il suo carisma era discreto, il suo aiuto costante, il suo approccio semplice ma profondo. E proprio quella sua bontà cristallina la rese — paradossalmente — una “preda facile” per tre giovani che avevano deciso di dare sfogo a un oscuro piano.
Un delitto assurdo: il male travestito da gioco
Le tre assassine, allora minorenni — Ambra Gianasso, Veronica Pietrobelli e Milena De Giambattista — avevano costruito un piano articolato attorno a un inquietante immaginario satanico: 18 coltellate, sei a testa, come omaggio al numero del diavolo (666); la data, il 6/6; una vittima “debole”, simbolo di purezza, da sacrificare. Inizialmente puntarono al parroco, ma per timore di una reazione scelsero la suora gentile, convinte che non avrebbe opposto resistenza.
Suor Maria Laura si recò all’incontro convinta di dover aiutare una ragazzina incinta, un’esca creata ad arte da una delle tre, che si finse bisognosa. La trappola si chiuse in pochi minuti: fu colpita alla testa con una mattonella, poi accoltellata 19 volte, una coltellata più del previsto. In quel momento tragico, riuscì a pronunciare parole che ancora oggi commuovono:
“Dio, perdonale, non sanno quello che fanno.”
Dal perdono alla beatificazione
Quelle parole — riportate anche dalle sue stesse assassine, poi processate, condannate e oggi libere con nuove identità — sono divenute simbolo di una santità vissuta nella carne. Non si trattò di una morte accidentale, ma di un martirio, riconosciuto dalla Chiesa e culminato, il 6 giugno 2021, nella beatificazione di Maria Laura Mainetti, celebrata proprio nella città dove fu uccisa.
La beatificazione non fu solo un atto di fede ma anche un atto civile, perché rimise al centro il senso del perdono, del dialogo e della resistenza al male, anche nelle sue forme più assurde e insensate. E le sue stesse carnefici, oggi adulte, hanno riconosciuto che quelle ultime parole li hanno segnate più di ogni processo o condanna.
Il significato di una memoria collettiva
A distanza di 25 anni, l’omicidio di suor Maria Laura Mainetti continua a parlare alla società. Parla di un’Italia che si interrogò sul senso del male, sulla banalità della violenza tra adolescenti, sulle fragilità delle periferie culturali e spirituali del Paese. Parla di una donna che non aveva nulla se non la fede e la dedizione, e che proprio per questo venne scelta come capro espiatorio da chi cercava il vuoto.
Eppure, il vuoto non è quello che resta. Resta il ricordo, la forza di un perdono pronunciato tra le coltellate, e la testimonianza di una vita che continua a generare luce, anche nel buio più fitto.