Dopo il terzo attacco d’ansia notturno in meno di due mesi, Laura – 38 anni, project manager e madre di due figli – si è sentita letteralmente spezzata in due: impeccabile sul lavoro, presente in famiglia, eppure divorata da un’irrequietezza mentale incessante che nessuno sembrava prendere sul serio. Solo in quel momento un medico ha sollevato un’ipotesi mai avanzata prima: non era “solo” ansia, ma un Disturbo da Deficit di Attenzione e Iperattività (DDAI) rimasto nascosto per anni dietro la maschera di una donna iperresponsabile, efficiente, sempre “a posto”.
Un’ipotesi che oggi risulta tutt’altro che rara: le diagnosi di DDAI nelle donne adulte sono raddoppiate tra il 2020 e il 2022, trainando con sé anche un incremento significativo dei disturbi d’ansia associati. Una realtà clinica ancora poco conosciuta ma sempre più evidente, che impone una rilettura urgente dei sintomi e dei criteri diagnostici tradizionali.
Perché il DDAI ha un volto diverso nelle donne
Nel mondo femminile il DDAI non si presenta quasi mai con il classico stereotipo del bambino iperattivo e disattento. Disattenzione, iperfocalizzazione e ansia, nei soggetti adulti di sesso femminile, si intrecciano in una dinamica più sottile e spesso invisibile. Al posto dell’irrequietezza fisica, compaiono ruminazione mentale costante, incapacità di “staccare” e perfezionismo cronico, che portano a un logorio interno difficile da spiegare e ancor più da diagnosticare.
I criteri diagnostici ancora in uso – derivati perlopiù da studi su bambini di sesso maschile – non tengono conto di questi aspetti più “interni” e meno rumorosi. Per questo molte donne ricevono la diagnosi di DDAI con almeno quattro anni di ritardo rispetto agli uomini. Quattro anni in cui si moltiplicano sensi di colpa, esaurimenti emotivi, e diagnosi errate come disturbo d’ansia generalizzato o depressione lieve.
Il fenomeno è confermato anche dai dati clinici: quasi una donna su due con DDAI presenta anche un disturbo d’ansia, una comorbidità che colpisce il doppio delle pazienti rispetto alla popolazione maschile. Questo legame non è casuale: la difficoltà nel gestire la concentrazione, unita all’ansia di non essere mai “abbastanza”, innesca una spirale invisibile che mina autostima, relazioni, carriera e salute mentale.
L’iperfocalizzazione è un altro tratto chiave spesso ignorato. A differenza della semplice disattenzione, molte donne con DDAI riferiscono momenti in cui riescono a concentrarsi in modo quasi ossessivo su un progetto o un’attività, ma al costo di trascurare i bisogni primari, ignorare segnali di stress fisico e vivere l’interruzione come una frustrazione ingestibile. Da fuori, sembrano iperproduttive. Dentro, vivono una fatica cognitiva costante e un’ansia che cresce con ogni imperfezione percepita.
Questo volto femminile del DDAI non è più raro, semplicemente è meno riconosciuto e più facilmente attribuito a tratti di personalità. Ma è proprio da questa zona grigia che nasce la necessità di riscrivere il modo in cui si osservano e si diagnosticano i disturbi neuropsichici nelle donne adulte.
Voci cliniche e storie vissute
A complicare ulteriormente il riconoscimento del DDAI nelle donne ci sono le oscillazioni ormonali, spesso sottovalutate. La psichiatra Monica Ferri chiarisce che gli estrogeni influenzano direttamente la regolazione della dopamina, il neurotrasmettitore centrale nel funzionamento attentivo e nella modulazione emotiva. Questo significa che molte pazienti riferiscono un aggravamento dei sintomi nei giorni premestruali, oppure in fasi di transizione ormonale come la gravidanza o la perimenopausa. In queste fasi la disorganizzazione mentale, l’ansia anticipatoria e la sensazione di perdita di controllo possono diventare particolarmente invalidanti.
La psicologa Elena Russo spiega invece come molte donne imparino fin da adolescenti a camuffare i propri sintomi con strategie di adattamento che, se da un lato permettono di “funzionare”, dall’altro aumentano l’autoesposizione allo stress. Si tratta del cosiddetto masking femminile, una forma di mimetismo che si manifesta attraverso comportamenti compiacenti, ipercontrollo emotivo, o assunzione di carichi di lavoro sproporzionati pur di sentirsi “all’altezza”. Queste strategie, spesso inconsapevoli, creano un’immagine esterna di efficienza che ritarda o impedisce la diagnosi, mentre internamente si accumula un senso costante di inadeguatezza.
La voce più potente, però, è quella di chi ha vissuto questo processo in prima persona. Federica, 41 anni, racconta: “Mi dicevano che ero solo ansiosa, troppo sensibile. Mi sono convinta di essere io il problema. Quando mi hanno diagnosticato il DDAI ho pianto, non per paura ma per il sollievo di dare finalmente un nome al mio caos interiore. Ogni attacco d’ansia, ogni black-out mentale a fine giornata, aveva una spiegazione. Non ero fragile. Stavo lottando con qualcosa che nessuno aveva mai voluto vedere.”
Queste esperienze confermano che la diagnosi tardiva non è solo un problema clinico, ma anche culturale. Il volto femminile del DDAI rimane troppo spesso nascosto dietro etichette inadeguate, e solo ascoltando davvero le storie delle pazienti è possibile costruire percorsi di cura efficaci e rispettosi della complessità individuale.
Riconoscere i segnali e orientarsi nella diagnosi
Molte donne convivono per anni con una forma di DDAI che non corrisponde ai modelli clinici più noti. La difficoltà non sta solo nel riconoscere i sintomi, ma anche nel dare loro legittimità. I segnali che possono far sospettare una componente neurodivergente sono spesso vissuti come difetti di carattere: procrastinazione spinta ma ipercontrollata, esplosioni emotive alternate a fasi di silenzio mentale, crolli di energia nei giorni precedenti il ciclo mestruale, bisogno estremo di routine segrete per mantenere l’equilibrio. Il tutto condito da una narrazione interna che accusa, sminuisce e pretende.
Molte di queste donne imparano a mascherare il disordine interno con prestazioni perfette, pagando però il prezzo di una tensione continua. La mente è affollata, l’attenzione salta da un pensiero all’altro, ma il risultato finale sembra sempre sotto controllo. Questo disallineamento tra apparenza e vissuto rende difficile l’accesso a una diagnosi chiara e tempestiva.
Per orientarsi in modo più consapevole, oggi esistono strumenti di screening validati e disponibili gratuitamente online. L’ASRS-v1.1 (Adult ADHD Self-Report Scale) permette di valutare la probabilità di un profilo DDAI, mentre il GAD-7 (Generalized Anxiety Disorder 7-item scale) è utile per misurare l’intensità dell’ansia generalizzata. Non sostituiscono una diagnosi professionale, ma possono rappresentare un primo passo per interrogarsi e cercare supporto mirato.
A partire da questi segnali iniziali, è importante rivolgersi a centri che sappiano leggere con competenza la complessità femminile. Strutture come https://www.gam-medical.com offrono percorsi diagnostici integrati, con équipe specializzate nel riconoscere le sfumature del neurodivergere femminile, troppo spesso ridotte a sintomi isolati o spiegazioni generiche. Trovare il giusto interlocutore significa dare finalmente spazio a una narrazione personale coerente, fondata e trattabile.
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