A quasi nove anni dalla tragica notte in cui perse la vita Marco Vannini, la vicenda della famiglia Ciontoli continua a far discutere. Martina Ciontoli, oggi 29enne, è stata recentemente autorizzata a lavorare fuori dal carcere di Rebibbia, dove è detenuta per concorso nell’omicidio del fidanzato, avvenuto nel maggio del 2015.
Secondo quanto riportato dal settimanale Oggi, la giovane – condannata a 9 anni e 4 mesi – ha ottenuto dal tribunale di sorveglianza la possibilità di lavorare per sette ore al giorno in un bar situato all’interno di una scuola di formazione del Ministero della Giustizia. Si tratta di una forma di misura alternativa alla detenzione, prevista dall’ordinamento penitenziario per i detenuti che abbiano già scontato una parte significativa della pena, si siano comportati correttamente e abbiano intrapreso un percorso di rieducazione.
Le prime immagini fuori dal carcere
Le prime foto di Martina Ciontoli impegnata nella sua nuova routine sono apparse sulle pagine del settimanale, che l’ha ritratta mentre si reca al lavoro utilizzando i mezzi pubblici e fa ritorno a Rebibbia nel primo pomeriggio. In uno degli scatti diffusi, la si vede sorridente e abbracciata a un ragazzo, gesto che ha inevitabilmente sollevato polemiche e amarezza tra coloro che non dimenticano la vicenda Vannini.
Il dolore della famiglia Vannini
A manifestare apertamente il proprio dissenso è ancora una volta Marina Conte, madre di Marco Vannini, il giovane ucciso a 20 anni mentre si trovava a casa della fidanzata a Ladispoli, la sera del 17 maggio 2015. Per la donna, vedere oggi Martina parzialmente libera è una ferita che si riapre: «Non credo che lo meriti – ha dichiarato –. Non ci ha mai nemmeno scritto una lettera di scuse o mostrato pentimento. Nessuna parola per mio figlio, nessun gesto di umanità».
Il riferimento è al silenzio mantenuto in questi anni da Martina nei confronti della famiglia della vittima. Un silenzio che per Marina Conte suona come un’ulteriore offesa, più ancora della concessione del lavoro esterno in sé.
Il caso giudiziario
La morte di Marco Vannini, avvenuta a seguito di un colpo di pistola esploso accidentalmente da Antonio Ciontoli, padre di Martina ed ex ufficiale della Marina, si è trasformata in uno dei casi giudiziari più seguiti e controversi degli ultimi anni. La vicenda non si è chiusa con il solo colpo d’arma da fuoco: a determinare la tragedia furono anche i ritardi nei soccorsi, frutto di omissioni e tentativi di insabbiamento da parte della famiglia. Proprio questo comportamento ha aggravato la posizione di tutti i membri coinvolti.
Nel processo, Martina Ciontoli è stata ritenuta responsabile in concorso con i familiari, in quanto presente in casa al momento dell’incidente e partecipe della gestione successiva dei fatti. Dopo un lungo iter giudiziario, la sentenza definitiva ha condannato tutti i membri della famiglia a pene detentive, seppur di diversa entità.
Un diritto concesso dalla legge
La possibilità per Martina di lavorare fuori dal carcere non è un privilegio, ma una misura consentita dalla normativa penitenziaria, che consente ai detenuti di reinserirsi gradualmente nella società attraverso attività lavorative, purché rispettino determinate condizioni. La giovane ha già scontato più di un terzo della sua pena e, a detta delle autorità, ha mantenuto un comportamento esemplare all’interno dell’istituto.
Nonostante ciò, il caso solleva inevitabilmente questioni di carattere etico ed emotivo. La reazione pubblica e il dolore mai sopito dei familiari della vittima dimostrano come la giustizia penale, pur nel rispetto delle leggi, fatichi a trovare equilibrio tra il diritto al reinserimento e la necessità di rispetto per la memoria delle vittime.